È notizia di ieri la decisione da parte del Consiglio di amministrazione del Teatro dell’Opera di Roma di procedere con il licenziamento collettivo degli artisti dell’orchestra e del coro del teatro stesso, per giungere alla completa esternalizzazione delle prestazioni artistiche.
Il fatto lascia davvero sbigottiti, non solo se si pensa alla situazione di centinaia di persone, considerando le famiglie, che dipendono da quel posto di lavoro per la loro vita quotidiana, ma anche per il forte valore simbolico della scelta, che è del tutto cieca e insensata.
Non si può credere che questa fosse l’unica soluzione praticabile, nonostante la sbandierata estrema sindacalizzazione e il rifiuto del piano di risanamento da parte di alcuni lavoratori.
Basta conoscere almeno un po’ il teatro per sapere che questo non è fatto di bilanci e piani industriali, ma prima di tutto di persone e che ogni opera teatrale è un’impresa collettiva dove ogni sera tutti convergono verso un unico obiettivo e dove non basta l’apporto unico del divo, se manca la partecipazione positiva di tutti gli altri. Se si conosce almeno un po’ il teatro, si sa bene che una rappresentazione non si può improvvisare, ma invece servono talento, competenza, esperienza e tanto lavoro. Chi ama il teatro d’opera sa che è una mera illusione pensare che si possa mettere insieme uno spettacolo pescando gli artisti di qua e di là. Un coro, un’orchestra, una compagnia di cantanti o attori non è data dalla somma delle singole individualità, ma è qualcosa in più, è un soggetto artistico che possiede una propria personalità collettiva, acquisita con il tempo, la fatica, con la frequentazione reciproca costante e con le prove.
Allontanare dal teatro un coro e un’orchestra ricchi di competenza, maestria e tanta esperienza, evidenzia una scarsissima conoscenza del teatro stesso e delle sue dinamiche interne ed esterne. Vale la pena di ripeterlo, la decisione del Teatro dell’Opera di Roma assume un valore simbolico molto forte e preciso: si è voluto allontanare gli artisti dal teatro.
Come si può pensare di salvare il teatro allontanando gli artisti? Sarebbe come dire che per salvare un ospedale, la prima cosa da fare sia allontanare i medici, o per salvare una scuola, cacciare in primo luogo gli insegnanti. Pura follia.
In realtà quella decisione è un emblema della deriva economico-burocratica che stiamo vivendo, per la quale nelle istituzioni il vero potere è sempre e comunque nelle mani dei consigli di amministrazione e dei direttori amministrativi e non invece dei docenti e degli studenti nelle università e nelle scuole, dei medici e dei pazienti negli ospedali, del pubblico e degli artisti nei teatri. Quei personaggi che sovente sono strapagati non tanto per trovare il modo di sostenere adeguatamente da un punto di vista economico le istituzioni che amministrano, ma solo per tagliarne i costi, sono spesso completamente ignari delle finalità peculiari di ciò che governano e a volte non riescono nemmeno a riconoscere l’utilità civile di quegli scopi specifici (istruzione, salute pubblica, cultura, arte): l’unica cosa importante è che quadri il bilancio.
Questo è l’esito diretto di una dissennata assenza di formazione culturale di base – in questo caso musicale – la quale sola può, nelle giovani generazioni, allargare un’angusta visione del mondo, affinare la sensibilità e consentire l’accesso alla bellezza, stimolando e guidando le capacità del sentire di ognuno. Un amante dell’opera sa bene che non è certo allontanando gli artisti che si può salvare un teatro!
Proprio mentre a Roma si decideva di licenziare gli artisti dal Teatro dell’Opera – ma che assurdità… non riesco proprio a crederci! – mi arriva l’ultimo numero della newsletter del Radcliffe Institute di Harvard, notiziario delle attività dell’Istituto della prestigiosa università americana. In questo numero si annuncia che la famiglia Johnson-Kulukundis ha donato, a sostegno dello sviluppo delle arti creative (musica, teatro, danza, poesia, arti figurative) ad Harvard, ben 12.500.000 dollari: dodici milioni e mezzo di dollari!
Intendiamoci, quei soldi non sono stati donati, ad esempio, per il sostegno alle ricerche sulle malattie genetiche o per incrementare qualche studio tecnologico con diretti ritorni in termini economici, ma a vantaggio dell’arte, soltanto all’arte.
Pura follia? Evidentemente no: non si spendono così tanti soldi per una stupidaggine.
La sensibilità e la lungimiranza di persone lontane da noi, la loro generosità, assieme alla loro sicura consapevolezza che l’arte è capace di liberare le menti ed è una delle più efficaci spinte al progresso comune, ci fa sentire, qui a Roma, non tanto poveri, quanto piccoli piccoli piccoli
Gran bei patrimoni, negli USA: altro che i notai italici! Bello il pezzo.
Una breve intervista sull’argomento:
Opera di Roma: un licenziamento anche simbolico, di Emanuele d’Onofrio.
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