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Corita Kent, Be a little more carefulSe incontri qualcosa che ti colpisce e ti fa palpitare, non è mai per caso.
Accade mentre assumi quella particolare disposizione allo stupore, come nei primi giorni di scuola, quando ogni parola nuova animava con sé una scoperta.
Sempre più rara, ma una volta ancora, la sorpresa m’ha di nuovo toccato mentre ero a Cambridge e ho voluto percorrere, al Museum of Arts di Harvard University, l’esposizione delle opere di Corita Kent, artista vissuta a Boston, da comprendere nella controversa quanto affascinante pop art, vicina a Handy Warhol e John Cage.
Io, ignorante, non la conoscevo affatto.

Serigrafie pop piene di colori e falsi titoli di giornale, vividi colori in false etichette commerciali, verdi rossi aranci blu su falsi usi materiali.
L’arte è tutta falsa, lo sappiamo, ma la pop art è ancora un po’ più falsa.
Falsa, ma non mendace, poiché trova ispirazione in quel particolare sguardo obliquo che vede in ogni oggetto la capacità di diventare una fonte, se solo lo si toglie dal contesto e gli s’appende un’altra idea, si fa trasparire l’annuncio diverso che pure nasconde.
Stupefacenti mi sono apparse le opere di Corita Kent, belle, d’una bellezza così evidente da riuscire a mostrare ciò che è in fondo all’anima del nostro mondo: una sincera speranza tortuosa e incessante.
Di fronte alla guerra nel Vietnam, accanto all’oppressione dei negri, attraverso la depressione che spinge alla fine, Corita ci mostra sorridendo che la salvezza è lì, al supermercato, su una scatola di cereali abbrustoliti.

Corita Kent

Sister Mary Corita Kent

Eppure, la sorpresa non è finita quando mi sono fermato a seguire, su uno schermo della mostra, un cortometraggio dai colori sbiaditi, in pellicola otto millimetri, di quelle che ancora conserviamo a casa con le immagini di famiglia in vacanza negli anni Sessanta, di quelle che ricordiamo, certo, ma non rivedremo mai più.
Le immagini di repertorio narravano i momenti della vita dell’autrice delle opere soprendenti e, sorprendentemente, mi hanno rivelato che questa donna, Corita Kent, era davvero Sister Mary Corita Kent, poiché Corita era una suora.
Artista all’avanguardia, sensibile al mondo, curiosa di sperimentare tecniche e messaggi con lunghe ore di prove, studio e preparazione. Ma anche insegnante amatissima, allevava con cura lo spirito creativo libero dei suoi studenti, guidandoli a una disciplina esigente e del tutto intransigente.
Vedeva nel vicino Vaticano II una reale possibilità per aprire la propria vita consacrata all’espressività più autentica delle verità e delle convinzioni fondamentali: pace, carità, amore.
Rimasta delusa dalle gerarchie, insieme ad altre consorelle uscì, mantenendo fede alla propria fede, ma fondando una nuova fratellanza, in uno spirito ecumenico, senza più sudditanze, vincoli rigidi o barriere.

Mi sembra che anche il suo essere suora e artista allo stesso tempo s’inquadri perfettamente nell’estetica della pop art, poiché sposta la comune iconografia della suora dai propri contesti usuali.
Non una donna semplice che si lascia vivere nella preghiera della comunità, non una donna che prega e mette in gioco le proprie energie per aiutare chi ha più bisogno, non una santa che pregando cerca una via mistica alla salvezza.
Corita Kent, god's not deadUna suora, invece, che prega e dipinge, disegna, stampa ininterrottamente, che interpreta il mondo sorridendo e lo esprime nelle sue crepe colorate, trasudando dolore e credo variopinti.
Una persona tra le poche che ancora oggi ha facoltà di profetizzare che «God’s not dead, he’s bread» e che può insegnare a tutti noi, studenti, che «Rule 7: The only rule is work».

Attenti, però… la prossima settimana dovrebbero esserci nuove regole…

Continuo a essere convinto che le donne offrano più speranza al mondo.
Tra queste – come ci suggerisce Paolo Sorrentino – forse un contributo non trascurabile alla salvezza giungerà, chissà, proprio dalle suore.