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Attendo da un’ora e mezza il mio turno dal medico di base.
Ho il numero 98 e sono l’ultimo della lista, accaldato, come gli altri che aspettano con me, alle tredici di un assolato venerdì 17 di luglio.Dik Dik. Senza luce
Il condizionatore, ahimè, non ci consola abbastanza e il nervosismo nella sala d’attesa è palpabile: ognuno di noi vorrebbe essere il prossimo, senza bisogno d’aspettare ancora, saltando la fila e a tutti rivendicando: «C’ero prima io!»
Ma il numerino maledetto e lo sguardo severo della segretaria dietro al bancone, ci costringe a guardarci attorno, incrociando altri sguardi attoniti e sperando che il malessere altrui non sia troppo prolisso e non richieda troppi minuti di consulenza ambulatoriale, prima del nostro agognato, fatidico incontro con il… dottore.
Sul filo del rasoio della chiusura quotidiana, arriva trafelato un ultimissimo paziente, sulla sessantina, basso e dalla faccia scura. Si getta sul numeratore, conquistando in fretta il numero 99 e si siede ansimando, rivolgendosi alla segretaria con familiarità:
«Che fai Manue’?»
«Eh, che faccio… lavoro! E tu che fai?»
«Ho messo la bistecca sul foco… e mo’ me se brucia si ho d’aspettà tutta ‘sta gente.»
«Che volemo fa’? Siediti e aspetta come tutti l’altri.»
«No, allora esco fuori un momento…»
Inizia così un dentro fuori, fuori dentro, un susseguirsi di sigarette e respiro inquieto, di imprecazioni e lamenti sulla moglie, ormai insopportabile, che s’è comprata un cellulare nuovo e gli ha lasciato il proprio, vecchio e scassato.
La porta esterna che s’apre e si chiude, il caldo e l’odore acre del fumo che entrano inevitabilmente, le parole biascicate e il suo andirivieni non fanno che innalzare la tensione della stanza, aumentando il nervosismo di tutti gli astanti, anche il mio.
A un tratto entra ancora, allarmato: «Manue’, me so’ perso il numeretto… ma ce lo ricordiamo, no? …era 99.»
«Ce lo ricordiamo, sì che ce lo ricordiamo… siediti e sta’ tranquillo.»
Si siede così accanto a una ragazzina, attaccata al proprio cellulare, mostrandole quello vecchio che gli ha lasciato la moglie e chiedendo, a lei che è esperta, dove si attaccano gli auricolari per ascoltare la musica. La piccola è sorpresa e un po’ spaventata, lancia un’occhiata alla mamma vicina a sé, e poi risponde con una vocetta roca da laringite incipiente.
«Qui… devi mettere il jack dell’auricolare qui.»
«Ma io non ce l’ho le cuffiette…», risponde lui così dispiaciuto.
Poi, la segretaria indaffarata si alza e va a chiedere qualcosa al dottore, e lui, approfittando di questi minuti senza controllo, attacca il vivavoce del telefono e fa partire la musica: la musica che gli piace.
Noi, pochi pazienti rimasti ad aspettare, ci guardiamo negli occhi e non sappiamo che cosa dire, spiazzati dal suo essere fuori d’ogni convenzione da sala d’aspetto, inopportuno e quasi provocatorio. Qualcuno sorride, nel caldo e nell’imbarazzo generale, un altro brontola, mentre lui sembra concentrato solo sulla musica, come fosse da solo ad ascoltare.
«E mo’ che famo, pure la musica?», esclama la segretaria, rientrando in sala dal consulto col dottore.
«Manue’… la musica… me devo rilassa’… me fa calma’.»

La porta del dottore si apre e si chiude e i pazienti davanti a me entrano e escono.
Lui, con quell’audio imperfetto e gracidante del vivavoce, continua a farmi ascoltare la sua musica, e sembra d’essere tornati per sogno a una spiaggia assolata degli anni Settanta, con i transistor che gracchiano i successi del momento.
Me li ricordo tutti: Senza luce dei Dik Dik, Tornerò dei Santo California, Demis Roussos con Una paloma blanca, Non si può morire dentro di Gianni Bella, gli Homo Sapiens di Bella da morirehip hip hip dell’Isola di Wight, l’Equipe 84 di 29 settembre
Rimasti solo noi ad aspettare, entrambi sprofondati sulle poltroncine come sulle sdraio, ci troviamo per un attimo lo sguardo e lui mi accenna un sorriso, ha capito che anch’io, anche io… so cos’è l’isola di Wight.
Manca solo un ghiacciolo alla menta.