La musica liturgica è sempre stata come la lingua: viva, cangiante, pronta a contaminazioni continue, ad assorbire nuovi elementi e a escludere brani e stili divenuti inadeguati. Ogni cambiamento ha portato con sé sentimenti di accoglienza e di rigetto, di integrazione e di contrasto dei quali abbiamo molte testimonianze scritte.
Difficile invece rendersi conto di come un singolo brano abbia potuto, lentamente, fare il suo ingresso dall’esterno, nella pratica liturgica.
Forse non sarà questo il caso, ma forse invece la rete ci ha mostrato recentemente come un classico del pop statunitense abbia fatta la sua apparizione nella liturgia. Si tratta di un cauto inserimento, anche se molto forte. In un momento della celebrazione di un matrimonio, Father Ray Kelly ha iniziato a cantare da solo – e molto bene per un sacerdote – il classico brano pop Hallelujah di Leonard Cohen. Lo ha cantato, è vero, cambiando le parole, ma dall’altare, con i paramenti sacri, con un’assemblea che lo ascoltava. Non sappiamo fino a che punto Father Ray sia stato consapevole del suo gesto, probabilmente il suo era solo un segno di affetto nei confronti degli sposi, ma il suo canto porta a pensare che tra non molto, se già non è successo, sentiremo le note di Hallelujah anche da noi durante la liturgia.
Il brano di Leonard Cohen è molto famoso, ripreso e interpretato da numerosi altri cantanti. Una tra le versioni più belle e più ascoltate è senza dubbio quella cantata da Jeff Buckley.
È però un canto il cui testo è molto legato all’esperienza dell’amore terreno tra un uomo e una donna, in cui i molteplici riferimenti alla Sacra Scrittura rimangono nell’ambito dell’Antico Testamento, come ci si può aspettare da un autore di estrazione ebraica: nulla che possa far pensare alla buona novella del Vangelo. Inoltre, la melodia, malinconica e nostalgica, non ha molto del giubilo tipico dell’Alleluia cristiano, così come ci è stato insegnato.
Eppure, per motivi non soltanto commerciali, la vitalità della parola Alleluia e la forza musicale di questo brano lo hanno portato in chiesa, dove forse, spinto anche dall’energia della rete, rimarrà anche in futuro.
Dopo suor Cristina anche questo father Ray può concorrere a The Voice…
Vorrei qualche considerazione interpretativa (io stesso sono molto incerto….) sulle continue risa di sottofondo (ben prima delle note in falsetto) e sull’aplauso finale.
Antonio
Dire incerto, è poco. Io sono proprio interdetto.
L’esecuzione musicale di Father Ray, quel giorno, ha certamente colto tutti di sorpresa, compreso lui stesso. Per questo si sentono commenti, risa e applauso finale da concerto pop. La scena è in parte imbarazzante, in parte trascinante ed è facile esprimere un parere negativo, legittimo e condivisibile. Tuttavia il fatto in sé sembra forte, espressivo, anche per l’eco che ha avuto in rete. Il contesto delle esibizioni di suor Cristina a The Voice è altro da lei stessa e il suo essere suora in quel contesto mette in bilico sia la trasmissione, sia la propria missione di religiosa.
Nel caso di Father Ray, invece, il contesto è fortemente liturgico nel luogo, nei paramenti, nella posizione dietro all’altare, nel ruolo di celebrante di fronte a un’assemblea. Molte riflessioni si potrebbero fare su quanto di spettacolare è insito nella liturgia. Ciò che però mi ha colpito è il modo in cui un brano estraneo sia entrato, quasi di soppiatto, se non nella liturgia, almeno in un contesto marcatamente liturgico, forse soltanto grazie all’energia evocativa della parola Alleluia.
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