Diminuiti gli anni di studio della filosofia, abolita addirittura nei Corsi di laurea in scienze dell’educazione, ridotti gli anni di studio della storia dell’arte negli istituti turistici, diminuite le ore di italiano nella scuola superiore.
Ridotti i fondi per la ricerca scientifica e per la didattica, revocati gli scatti di progressione economica delle retribuzioni dei docenti e dei ricercatori.
Di recente la scuola e l’università sono cambiate sostanzialmente negli equilibri interni tra le discipline e anche nelle possibilità di sviluppo interno e esterno, all’insegna del meno, in un inesorabile processo di riduzione da spending review culturale.
Meno pagine da studiare per ogni esame universitario, ridotti i programmi e gli anni di studio. Si prospetta, tra poco, la riforma che porterà da cinque a quattro gli anni del Liceo, come era per il vecchio Istituto Magistrale, abolito anni fa.
Il valore preponderante che, in qualsiasi ambito istituzionale e culturale, ha assunto il segno meno, così come la ricerca affannata di riduzione e il significativo spazio accordato proprio al concetto di diminuzione, sono forse le tracce più riconoscibili della nostra crisi di comunità.
Spesso camuffata in altre denominazioni, la nozione è sempre la stessa. Possiamo parlare di ridimensionamento, blocco, ricollocamento, semplificazione, ma la sostanza non cambia: meno, meno e sempre meno.
Non persuade attribuire il valore del meno nell’Italia di oggi solo agli esiti della politica economica della troika europea con a capo Angela Merkel. Invece, si tratta di un profondo convincimento entrato nel sentimento comune. Né il reiterato appello alla crescita si riferisce a questi stessi ambiti istituzionali e culturali, ma piuttosto a precisi interlocutori economici legati alla produzione di beni materiali.
Un’intera generazione si è appena formata e sta iniziando la propria vita matura avendo costantemente all’orizzonte il criterio del meno in ogni manifestazione di vita collettiva e culturale: restrizioni, limitazioni, angustie. L’agognata crescita della libertà individuale, perseguita in modo populista negli ultimi anni, ha avuto come contraltare una costante riduzione di quell’agio collettivo e istituzionale che fino a qualche anno fa era all’insegna del più e non del meno. D’altra parte, è comune l’opinione per cui, dietro all’idea di istituzione, c’è sempre in agguato quella di spreco: da ridurre, tagliare, diminuire.
Se non consideriamo la materia specifica delle manovre di limitazione, che pure ha un grande significato, ciò che appare costante è l’idea fissa per cui si debba perseguire un considerevole calo in tutto quello che riguarda la collettività. Da ogni parte si auspica il taglio delle tasse, la riduzione delle spese della pubblica amministrazione, si persegue il ricollocamento di migliaia di lavoratori, si soffre la diminuzione del potere d’acquisto o il calo della natalità. Tutto ciò che è quantitativamente rilevante, riguarda la collettività e ha un pur minimo risvolto economico, viene presentato come indissolubilmente legato all’idea di riduzione.
Appare poi piuttosto emblematico – e, secondo me, allarmante – il fatto che la generale e intima necessità del segno meno sia intesa come sinonimo di accorato bisogno di cambiamento e, paradossalmente, di progresso, anziché essere interpretata come un irriducibile peggioramento. (Quest’ultimo, però, è terreno ambiguo, se consideriamo, per esempio, le teorie, almeno in parte condivisibili, che auspicano una diminuzione della crescita globale come unica via verso un effettivo miglioramento dell’umanità.)
Ci si accorge che, da un punto di vista psicologico, questa presenza costante del meno condiziona notevolmente ogni opportunità di slancio sociale, di apertura e di ripresa e conduce a una sorta di rassegnazione, evidente a vari livelli. Il meno incombe tenacemente sulla nostra vita collettiva, quasi perdendo ogni contatto con la materia specifica della riduzione e divenendo un’impronta generica che applichiamo e ricerchiamo ogni volta che abbiamo a che fare con le istituzioni e la comunità civile: meno, meno e sempre meno.
Magari, con fiducia, in un futuro non lontano si potrà aspirare di nuovo a un costante e condiviso segno più: più arte, più filosofia, più cinema, più teatro, più libri, più musica, più istituzioni, più collettività.
Scrisse il mai abbastanza compianto Antonio Gramsci:
“Istruitevi perché abbiamo bisogno di tutta la vostra intelligenza.
Agitatevi perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo.
Organizzatevi perché abbiamo bisogno di tutta la vostra forza”
E ancora:
“Occorrerà resistere alla tendenza di render facile ciò che non può esserlo senza
essere snaturato”
Parole che ogni giorno dovremmo avere a mente…
Buona giornata!
Giacomo mi segnala un recente articolo di Roberto Saviano su Repubblica, il cui testo allarga il discorso sul “meno, sempre meno“, aggiungendo il pericolo della minimizzazione.
http://www.repubblica.it/cronaca/2014/03/20/news/la_terra_dei_fuochi_e_la_terra_delle_menzogne-81412607/
«Il presente falsificato genera un futuro malato. La storia si vendica”. Mi sono venute in mente le parole dello scrittore polacco Slawomir Mrozek quando ho letto il documento della commissione interministeriale sui “Risultati delle indagini tecniche per la mappatura dei terreni destinati all’agricoltura della Regione Campania”. La parola d’ordine di questa operazione è una sola: minimizzare. Minimizzare l’emergenza connessa all’inquinamento dei suoli in Campania. Minimizzare l’entità dei danni subiti dall’ambiente. Minimizzare l’impatto che l’inquinamento ha sulla vita e sulla salute delle persone. Minimizzare le colpe di chi si è reso responsabile e complice di questo disastro. Minimizzare l’entità del disastro.[…]»