Qualche giorno fa il Corriere ha pubblicato un articolo di Claudio Magris dal titolo Perché siamo diventati così ignoranti.
L’autore parte dalla comune constatazione che attualmente il web ci consente di avere a disposizione una quantità enorme di informazioni sempre e ovunque, realizzando una sorta di corto circuito, in cui l’eccesso d’informazione blocca e inibisce il raggiungimento di una vera cultura. Le osservazioni sono pertinenti ma, secondo lo stesso autore, non riescono a spiegare effettivamente un presunto aumento generalizzato dell’ignoranza, tanto che al termine dell’articolo Magris si chiede «come mai nell’epoca del saper tutto si sappia sempre meno».
Ho più volte affermato di non credere affatto che oggi siamo più ignoranti di quanto fossimo nel passato. Bisognerebbe certamente stabilire a quale passato ci riferiamo, tuttavia sono convinto che complessivamente oggi siano molte di più le persone con un grado di istruzione superiore rispetto a quante fossero quando i nostri padri e madri avevano la nostra stessa età: vi è stato dunque un netto miglioramento. Inoltre conosciamo una quantità innumerevole di nozioni generali, ma diverse rispetto a quelle del passato e soprattutto apprese in modo non tradizionale.
L’ignoranza su temi generali storici, letterari, geografici e scientifici che nel passato era vergognosamente celata e induceva persone non istruite a non aspirare – e quindi a non ricoprire – ruoli di un certo livello, oggi sembra aver perso il proprio valore negativo, viene mostrata senza particolare pudore e non impedisce ad alcuno di svogere attività di “alto rango”. D’altra parte, perfidi conduttori e pseudosociologi hanno acquisito il vezzo di smascherare questa stessa ignoranza con acrimonia e gusto del ridicolo, per far crescere gli ascolti della tv e per ribadire il luogo comune secondo cui chi sta al potere non dovrebbe esserci. A parte il fatto che bisognerebbe sottoporre gli stessi conduttori alle prove che somministrano alle loro vittime illustri, per sondare almeno il livello culturale di chi ci propina questi scherzacci, credo che queste indagini da sensazione lascino il tempo che trovano.
Quanto poi ad attribuire a Internet con i relativi Google, Wikipedia e Youtube il demerito di farci diventare più ignoranti, come fa Magris, l’affermazione mi pare alquanto semplicistica. Invece, il cambiamento scatenato dalla rete ha a che fare, secondo me, con una serie di fattori riguardanti l’economia del sapere, la memoria e la critica delle fonti. Internet sta contribuendo a cambiare la nostra mente, la modalità tradizionale di apprendimento tramite la quale siamo stati educati e il comune concetto di cultura generale.
In un mondo in cui gran parte delle informazioni è così a buon mercato, diciamo quasi gratis, l’umanità sta adeguando la propria memoria individuale, svuotandola di quanto si può trovare sempre e ovunque e stipandola di altri contenuti. Ricordo che in terza media imparai a memoria le capitali di tutti gli Stati federali USA: una grande fatica, un bel voto, oggi non ricordo quasi più niente. Non è necessario ricordare quale sia la capitale del Connecticut – per la cronaca Wikipedia mi ha appena rammentato che è Hartford – se posso saperlo senza alcuno sforzo. Meglio riservare le mie (limitate) energie per altri contenuti, per esempio il testo della canzone che dovrò cantare dal vivo con il Coro tra qualche giorno.
Mantenere a memoria un’informazione generica è certamente vantaggioso, ma nella nostra epoca non è facoltà essenziale, considerando la velocità e la scarsa energia che dobbiamo impiegare per recuperare gran parte di questo tipo di informazioni. Sappiamo che è molto più utile saper trovare e scegliere le informazioni giuste di cui abbiamo bisogno al momento, selezionando le fonti più attendibili, sapendo poi elaborarle e infine formulando ed esprimendo nuovi contenuti. La cultura generale, il sapere generico viene delegato sempre di più al veloce recupero in rete, mentre manteniamo a mente soltanto ciò che è più vicino ai nostri specifici interessi di lavoro, di vita sociale, di affetti.
È più importante conoscere il significato di tantissime parole che non ci servono quotidianamente o saper leggere bene il dizionario? Si tratta dell’annoso pedagogistico dilemma tra conoscenze e competenze che vede nella frequentazione e nella dimestichezza con una disciplina l’acquisizione delle conoscenze a partire dalle competenze.
Internet richiede che gli utenti sappiano leggere bene il suo contenuto reticolare, facoltà tutt’altro che banale e che bisognerebbe insegnare già dall’infanzia. Una volta acquisita questa capacità, le informazioni potrò trovarle quando voglio, sempre e ovunque, relegando a un mero esercizio tecnologico la vetusta cultura generale.
Una lettura interessante a riguardo:
- Daniel M. Wegner e Adrian F. Ward, Come Google ti cambia il cervello, «Le Scienze», febbraio 2014 (segnalatomi da Giancarlo)
Caro Acciarino,
l’altro giorno facevo vedere ai miei studenti L’albero degli zoccoli di Olmi. Ti chiederei, perché averli dovuto sottoporre ad una tale tortura? Venticinque monellacci americani, lì a confrontarsi con un mucchio di famiglie che parlano in bergamasco stretto… Beh, la scelta non è stata mia, ma di chi ha costruito il programma del corso. Oddio, avrei potuto cambiarlo, quest’anno, ma non avevo la forza di ripensarlo, a Gennaio. Ad ogni modo questo film – che non è poi così male, se si riesce a sintonizzarsi su quel ritmo lento e naturale, sulla magia del tutto che accade nel niente – mi ricordava che cos’era la nostra civiltà, italiana e non, un centinaio di anni fa, ma anche pochi decenni fa, in buona parte d’Italia. Mi faceva pensare che la “cultura” è un’invenzione, così come la intendiamo sempre, un modo di dividere ed inibire le persone, di classificarle, di spingerle a comprare i giornali. Per noi cultura è “sapere di qualche cosa, possibilmente di parecchie cose”…. credo che questo concetto, però, non serva a nessuno, sia vuoto. Soprattutto, sia del tutto slegato a quello che è il nostro scopo primario, cioè, banalmente, “star bene, il più possibile”. Un’idea più piena di cultura, secondo me, più interessante, è “sapere ciò che vogliamo sapere”, cioè, prima di tutto, “conoscere noi stessi”. La cultura che ci serve, in questo senso, parte dal nostro cuore, che è unico. La vera “ignoranza” è il fiume di omologazione che ci trascina via e ci fa dimenticare chi siamo, quello che vogliamo. Le tecnologie ci hanno avvicinato tutto, e tutto a portata di click, e noi non sappiamo che cosa vogliamo prendere, perché non ci conosciamo fino in fondo. Siamo come quella gru del luna park, che proviamo ad aggiustare con la manopola, e poi va un po’ a casaccio. E ci lasciamo travolgere da “informazioni” che proviamo ad afferrare e ad appiccicarci addosso come un distintivo, per andare in giro, essere riconosciuti e, il più possibile, stimati. Per citare un noto film, la cultura, come ci viene raccontata, ci rende “chiacchiere e distintivo”…. Ricordiamoci chi siamo, solo una volta che ci saremo riusciti riusciremo, credo, a distinguere la musica che ci delizia nel rumore che ci travolge.
La cultura è quell’insieme di conoscenze e capacità, i cosiddetti strumenti, che ci consentono di capire chi siamo. Non è certamente possibile rispondere esaurientemente a questa domanda che è fondamentale e non ammette una risposta definitiva. Però la cultura ci aiuta, poiché innanzitutto ci consente di porci questa domanda: non sono certamente molte al mondo le persone che si possono concedere il lusso di chiedersi e si chiedono effettivamente chi siamo? Successivamente la cultura ci guida nella ricerca di una risposta, quale che sia, spingendoci nei meandri delle infinite possibilità.
Sapere molte cose è importante, ma è altrettanto necessario saper mettere in relazione le mille informazioni che possediamo. Da questo punto di vista la rete è un modello che simula come pensiamo. Oggi ci rivolgiamo alla rete come fosse un nostro conoscente per sapere in velocità e senza sforzo quello che non sappiamo o al momento non ricordiamo. Tutto ciò è assolutamente inedito e rivoluzionario. Questa modalità sta cambiando la nostra mente, ma di certo non risolverà definitivamente le questioni fondamentali e la filosofia avrà ancora molto da dire.