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Ha fatto discutere in questi ultimi giorni l’intervista di Gian Luca Favetto su Repubblica, al musicista che non ha mai letto un libro. Il misterioso interlocutore è stato preso a emblema dell’Italia che non legge, di un Paese sempre più ripiegato nel lasciarsi vivere. Pochi sono stati gli accenni al fatto che si tratti di un musicista, cioè una persona che lavora nella cultura.
I musicisti che non sanno altro se non di musica – sperando che sappiano almeno quella – e non si preoccupano affatto di sapere molto di più, sono un topos della tradizione musicale e musicologica e, probabilmente, sono anche una realtà. Si potrebbero citare molti esempi illustri, ma basti ricordare Benedetto Marcello, il quale già nel 1720, nel suo Il teatro alla moda, affermava con amaro sarcasmo che «Non è molto necessario che il virtuoso sappia leggere, o scrivere, che pronunzi ben le Vocali, ch’esprima le Consonanti semplici o replicate, che intenda il sentimento delle Parole, etc.»
Questo status del musicista è stato fin dall’antichità una conseguenza – ma anche una causa – della sua condizione servile e del suo trattamento, almeno fino al secolo XIX, alla stregua di un mero lavoratore manuale, un semplice esecutore senza alcun merito culturale o un valore particolare.
C’è da dire, però, che lo stesso luogo comune è anche servito ai musicisti per ergersi al di sopra della massa, a volte dissimulando una cultura realmente ricchissima. Giuseppe Verdi in una lettera del 1869 dichiarava: «Nella mia somma ignoranza musicale, non saprei da quant’anni non sento l’Ave di Schubert […] Non creda che dicendo: una somma ignoranza musicale, sia per fare un po’ di blague. No, è la pura verità. In casa mia non vi è quasi musica, non sono mai andato in una Biblioteca musicale […]», e in altra occasione, in maniera alquanto sibillina, «Bisogna avere tanta cultura che basti a capire quello che si deve capire».  Sappiamo invece che la sua biblioteca personale era colma di opere di musicisti antichi e moderni, ma anche di numerose edizioni delle opere di Shakespeare, di Eschilo, Alfieri, Dumas, Balzac, Zola e molti altri.
Fatta questa premessa, mi permetto di spezzare una lancia a favore del fantomatico musicista.
Se esistono certamente alcuni musicisti che non leggono libri – ma potrebbero farlo – quanti sono i letterati, o i comuni lettori, che invece non leggono la musica, perché proprio non sanno farlo? Quanto della nostra cultura, questi lettori assidui, si precludono senza appello?
E di conseguenza: saper leggere la musica, leggerla quotidianamente assieme ai maggiori musicisti del momento, non può forse permettere un arricchimento culturare di altissimo livello? Se poi si corrobora questa lettura musicale costante con viaggi, cinema, visite a mostre e musei, la pratica dell’arte figurativa – come testimonia il nostro musicista intervistato – allora penso che davvero possa bastare.
Sono infatti convinto che la musica – ascoltata, letta, suonata e cantata – ci faccia capire moltissimo di noi stessi e del mondo in cui viviamo: è una chiave di lettura della realtà senza eguali.

Tuttavia, questo ricordo di Luigi Dallapiccola (Qualche cenno sulla genesi de ‘Il prigioniero’, «Paragone», a. 1, n. 1, 1950), mi dà da pensare:

‘Non è più l’epoca dei musicisti ignoranti’, [mio padre] badava a ripetermi quando gli dicevo che al Liceo, studiando la derivazione delle formole molecolari o gli elementi di cristallografia, mi sembrava di perdere il mio tempo.