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Alberto Asor Rosa, discipline umanistiche, Ernesto Galli della Loggia, Michele Dantini, Roberto Esposito, umanesimo
Col passare degli anni, anch’io inizio a provare l’irresistibile fascino prodotto da una comune illusione d’anziano: che il passato già vissuto sia stato comunque migliore del presente, oggi apparentemente malsano e senza speranza. Da giovane ho sempre avversato chi mi ripeteva questo adagio, affermando la personale convinzione che inevitabilmente gli anni della gioventù sono e sembrano più belli di quelli dell’incipiente vecchiezza: è solo una questione anagrafica.
Leggendo il recente e accorato manifesto di Alberto Asor Rosa, Roberto Esposito e Ernesto Galli della Loggia – Un appello per le scienze umane, «il Mulino», 6, 2013, oggi disponibile anche liberamente in rete – e non essendo ancora definitivamente attempato, il mio umore è rimasto in bilico: tra il vecchio che vuol confermare la visione apocalittica proposta dai tre autori e l’ancor giovane integrato che invece rivendica la legittimità e positività (o neutralità) del cambiamento.
Difficile riassumere in poche parole ciò che denunciano i tre intellettuali. Per loro, il senso umanistico che ha premeato per secoli la società italiana si sta perdendo irrimediabilmente ormai da decenni. Le menti più alte che hanno rappresentato nei secoli la guida anche politica, oltre che culturale, del Paese, erano pervase da questo tenore avvolgente, fondato sulla conoscenza della storia, della letteratura, del pensiero filosofico e linguistico antico, oggi quasi scomparso o comunque ridotto e minacciato dall’imperativo economico delle leggi di mercato. Che queste affermazioni siano condivisibili, è quasi scontato, ma giungere alla conclusione ineluttabile per cui il passato autenticamente umanistico era migliore di questo presente arido, inautentico, globalizzato, asservito al profitto e persino pericoloso, mi pare un po’ azzardato e anzianamente illusorio.
Senza giungere al parere quasi sprezzante che ha accompagnato in rete il richiamo dei tre sapienti – si veda almeno Michele Dantini, Un “appello” pedante e libresco – ritengo che proprio da quanto affermato nel manifesto si possa intendere quel che sta accadendo.
Ciò che manca nella riflessione degli accademici è l’affermazione e la consapevolezza del modo in cui il mondo della cultura, il mondo della politica, tutto il mondo è cambiato e sta ancora cambiando freneticamente. Banale constatazione, si potrebbe dire, ma di fronte a questo mutamento, che spiazza chi è abituato ai noti parametri di conoscenza, il richiamo al passato idilliaco non basta. Se è inadeguato valutare – e non giudicare – le discipline umanistiche secondo paradigmi da «marketing aziendale», è altrettanto insufficiente vagliare l’attualità culturale e sociale nelle maglie dei «contenuti “umanistici” tradizionali».
Il sapere è indispensabile a chi voglia contribuire alla costruzione di una società giusta e democratica, ma l’opzione umanistica della tradizione non è esclusiva, è solo una tra quelle disponibili, magari non la più adatta a leggere la contemporaneità. La sfida da lanciare all’umanesimo è trovare strumenti adeguati di interpretazione che rispondano alle esigenze inedite della cultura contemporanea, strumenti che, ahimè, ancora non si vedono e costringono questa visione del mondo ad un fatale arretramento. Come non accorgersi che proprio la fruttuosa consapevolezza umanistica, richiamata dal manifesto, della «connessione costitutiva tra storia e crisi», del «nesso necessario tra sviluppo ed origine» dovrebbe fornire oggi proficue chiavi di lettura umanistica della cultura contemporanea, delle sue difficoltà e dei suoi cambiamenti, evitando o almeno riducendo quell’ombra nostalgica che si dimostra assai poco feconda.
Ma, mi chiedo, la cultura umanistica della tradizione è capace oggi di fornire adeguate chiavi interpretative dei cambiamenti che sono in atto? Finora non lo ha fatto in modo efficace, anche se sarei felice di essere smentito. Il mio dubbio è che guardare solo la strada percorsa nel passato – per quanto istruttiva e di grande arricchimento – ci impegni a tal punto da perdere di vista gli sviluppi più autentici della cultura umanistica che oggi si espandono su altre vie.
D’altronde, che genere di diffusione reale aveva l’umanesimo nel passato italiano, considerando la percentuale di alfabetizzazione? Chi ci assicura che non esistano menti, correnti diffuse e contenuti autenticamente umanistici nella cultura del nostro tempo? Forse il problema è che questi spiriti sono diversi da quelli del passato e non si trovano più nei contenitori tradizionali – oggi tecnicamente e anche umanisticamente inadeguati: i licei, i corsi di laurea umanistici, i congressi accademici, i meandri delle abilitazioni nazionali – poiché non sono più quelli i luoghi dove i loro contenuti trovano humus per poter crescere e diffondersi.
L’umanesimo è migrante: credo che si debba provare a cercarlo in altri siti.
Dovremmo forse chiederci se è davvero la cultura umanistica a essere entrata in una decadenza irreversibile o al contrario sono gli inveterati metodi e le istituzioni, attraverso i quali ancora oggi si cerca di diffonderla e tramandarla, a non essere più idonei. Allontanato dalla scuola e dall’università, come luoghi non più adatti a contenerlo, l’umanesimo affiora e alberga altrove.
È difficile, in misura assai maggiore per i più maturi, anche solo ammetterlo: le giovani generazioni hanno certamente molto da imparare, ma ci insegnano anche altrettanto. Nei nuovi luoghi della cultura, nei diversi percorsi di apprendimento, nelle discipline che sempre di più scavalcano limiti che in passato apparivano invalicabili, c’è molto di quell’umanesimo che è sparito dai banchi di scuola, dalle biblioteche, dagli esami e dai concorsi universitari.
Se solo si pensa a quanto la disponibilità libera del sapere – di testi, opere e informazioni umanistiche e no – si sia moltiplicata in modo esponenziale in questi ultimi anni e al vantaggio che ne ha tratto sia la formazione di base che quella specialistica, ci si accorge di essere entrati davvero in una nuova era, dove i paradigmi che noi stessi abbiamo vissuto e sui quali pensavamo di poter invecchiare, non sono più validi. Lo stesso uso della memoria, che era uno dei cardini dell’apprendimento e della coscienza umanistica tradizionale, oggi vacilla perché sostituito dalla tecnologia, confermando direzioni inattese del sapere con le quali l’umanesimo non può che fare i conti (Michel Serres, Le banche dati che ci obbligano a essere intelligenti).
Dunque, nessun appello ad una agognata rinascita.
Non si tratta di ri-trovare lo spirito umanistico perduto nelle scuole e nelle università, ma di ri-conoscere l’eredità dell’umanesimo che ci pervade diversamente, altrove, ma non credo sia stata mai smarrita.
giusto e condivisibile, ma per riconoscere occorre conoscere, dunque non spezzare il filo che ci lega al passato. e invece… http://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/2014/1/118232.html
Da leggere in proposito, oltre ai vecchi lavori di Martha Nussbaum, come “Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica” edito da Il Mulino (Intersezioni), il recentissimo – e per fortuna molto “gettonato” – “L’utilità dell’inutile. Manifesto” di Nuccio Ordine, edito da Bompiani: ben scritto e – meraviglia! – quasi privo di refusi .
Sono assolutamente d’accordo sul giudizio riguardo al trombonesco appello di Asor Rosa & co, a proposito del quale Michele Dantini ha detto cose giustissime. Sarei però MOLTO curiosa di sapere dove oggi si annida la nuova ‘cultura umanistica’…