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Che cosa succede se, dopo aver preparato a lungo un concerto per un’esecuzione pubblica, al momento di iniziare si capisce che l’orchestra sta suonando un altro concerto?
Un colpo: imbarazzo e panico assieme.
«Non è questo il pezzo che ho studiato! Posso provare… ma non è questo… non ce l’ho, è a casa…». Una maschera che implora misericordia, incapace di uscire da una situazione intollerabile. Soltanto un errore, un fraintendimento, lo scambio di un numero e la situazione diviene insostenibile.
«Lo hai suonato la scorsa stagione, lo sai così bene … sei certamente in grado di suonarlo», il direttore dirige e sorride fiducioso.
Incredibile ciò che può fare una persona di talento: passare immediatamente da un concerto all’altro e suonare quello giusto a memoria, senza averlo preparato per l’occasione.
Il pubblico, intanto, ascolta in silenzio e non capisce cosa stia realmente accadendo.

Quante intime ragioni della musica si possono capire assistendo a un evento come questo!
Sembra che la musica possa procedere da sola, per una sua forza intrinseca che prescinde persino dagli esecutori. Loro stessi sono spinti e trascinati, costretti quasi a farla suonare. Possono soltanto obbedire e assecondare un flusso che è lo stesso del sangue: inarrestabile.
Un atto sciamanico, tragico, una sorta di incarnazione dello spirito autentico mozartiano. La completa simbiosi con il procedere del tempo, trasportati nell’illusione di poter dominare e cavalcare l’onda sinuosa e espressiva della melodia. Ma noi siamo soggiogati.

I protagonisti sono la pianista Maria Joao Pires e il direttore Riccardo Chailly. Il brano è il concerto in Re minore per pianoforte e orchestra di Wolfgang Amadeus Mozart, K466. Il luogo è il Concertgebouw di Amsterdam.
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Il mio amico Giacomo mi scrive:
«Interessante l’esperienza di Amsterdam. Ho ripensato a un quartetto d’archi in cui suonavano due figli del mio maestro di violino. Erano all’estero, in Germania, e prima di un concerto hanno divorato salamini, Gulasch e tanta birra. Al momento di iniziare l’esecuzione non solo erano un po’ brilli, ma non si ricordavano più nulla. Vivevano in un altro mondo. Anche le voci sembravano giungere da lontano, irreali. Spregiudicati si sono seduti e hanno lasciato che le dita corressero su e giù guidate dalla memoria, perché volontà e intelletto erano assopiti. “Non ci crederai. Penso che non abbiamo mai suonato così bene. Affiatati. Un suono limpido e appassionato, travolgente e coinvolgente tutto l’uditorio. Mentre eseguivamo la musica, ci sembrava di ascoltare un altro quartetto…”. Così mi confidò un figlio Riccardi. Avventure della vita.»