Oggi racconto una storia.
Fin da bambino mi tuffavo dagli scogli bianchi della casa al mare. Mi lasciavo cadere o mi lanciavo, finendo in acqua con tutto il corpo avvolto in un fluido sudario, senza peso, per un momento senza direzione, liquefatto in mezzo all’acqua salata.
Subito dopo il tuffo, sebbene guadagnassi presto la superficie, quell’attimo profondo di perdita d’ogni identità, di completa dispersione, era il più attraente, quello per cui valeva la pena d’immergersi. Era un modo per separarmi da me stesso, per fare parte del tutto.
Man mano, col tempo, acquistai competenza e, dopo anni di liberi tuffi, decisi ch’era il caso d’andare più a fondo: con esercizi e studio divenni un vero sub.
Niente al mondo mi piaceva più di andare sotto al mare. Era limpido e smeraldino, pieno di riflessi e colori, non come il fiume che non mi tentava affatto: l’acqua dolce mi sembrava insipida, spesso poco profonda e subito torbida e melmosa. Il mare, invece, liquido amniotico della nascita primordiale, raccoglieva la luce e la diffondeva.
Poi… la svolta. Avrei potuto trasformare i miei tuffi in un vero lavoro, avrei potuto fondare la mia vita sull’immersione, sul mio saper cercare sotto il mare ciò che altri non potevano più trovare e recuperare. M’arruolai, dunque, senza indugio e lavorai da quel momento sotto il mare. Io ero felice.
«Stiamo attenti, ci ha avvertito il capitano, dobbiamo prima studiare la situazione, poi inizieremo a riportare su. Bisogna concludere presto, bene ma con attenzione».
Poco dopo abbiamo iniziato la discesa, la discesa nell’Ade.
Sul fondo è un barcone di Caronte, pieno d’anime mancate e di corpi, affondato in avaria. Le donne e i bambini, gli uomini uno sopra l’altro ci attendono pietosi, ma nel silenzio, nessuno implora il nostro soccorso come Palinuro. Noi ci spingiamo a fondo per condurre in superficie le spoglie già sepolte sott’acqua, perché siano tumulate, di nuovo, in un sepolcro sotto terra. Salme che son già sotto, eppure sotto ritorneranno. Perché solo allora il vascello psicopompo si muoverà, raggiungerà l’altra sponda e le ombre avranno pace. Il nostro lavoro è come quello dei superstiti d’una battaglia, recuperare i resti dei caduti per dar loro degna sepoltura. Uno per uno quei corpi mortali vengono di nuovo alla luce, noi li portiamo in alto: siamo troppo avviliti per esser vere levatrici, ma facciamo emergere le reliquie di una lotta di speranza e di vergogna.
«Per oggi basta così.»
«Che dice quella donna sopravvissuta?»
«Ripete un detto eritreo: Nessuna persona può vivere senz’acqua e senza una donna».
«È vero!»
«E quelle donne che portate su?»
«Perdute, perdute nell’acqua».
Corpi distesi nell’Ade,
Anime salate a cataste
Tenute immerse in
Acqua, salite su un
Battello e precipitate
A fondo, recuperate in
Superficie
In un giorno feriale.
Ecco, dopo giorni il nostro lavoro volge al termine e alla fine il mio spirito rimane giù, a fondo.
Oggi ho portato alla luce l’ultimo corpo, il mio.
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Catabasi: acrostico come nell’argomentum della comoedia palliata “Amphitruo” di T. M. Plautus