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N. Tangari, Four zucchiniQualche giorno fa Antonio mi ha consigliato di leggere un articolo pubblicato su Repubblica del 23 ottobre, a firma di Jean Clair e intitolato: L’arte è un falso. L’opera contemporanea tra tecniche seriali e mercato impazzito.
Lettura istruttiva davvero e capace di stimolare molte riflessioni.
Per riassumere in breve il pensiero del critico francese, cito alcune frasi centrali:
«Sono arrivato a pensare che l’arte contemporanea è interamente composta di falsi, che sono dichiarati capolavori da critici dall’autorità assai più dubbia del sapere eminente degli storici di un tempo, esperti dedicati all’autentificazione dei capolavori dei tempi passati, che esitavano e dibattevano lungamente prima di pronunciarsi sul vero e sul falso. Se questi conflitti sulla veracità, l’originalità, la falsità, la provenienza delle opere sono in questi tempi di un’attualità fracassante, è evidentemente a causa dei prezzi astronomici delle opere sul mercato. […] Non siamo più nel registro del gusto (si tratta di opere francamente brutte o addirittura repellenti), e neppure si tratta di rarità: sono opere indefinitamente riproducibili. Non hanno in realtà alcuna esistenza, e non hanno un “valore” se non attraverso il mercato che le propone.»
L’opinione di Jean Clair non è nuova, poiché ripropone in chiave colta l’adagio popolare secondo cui tutta l’arte contemporanea non sia altro che un grande bluff, quando ciò che vedo esposto potrebbe riprodurlo facilmente mio figlio o io stesso, se solo ne avessi la sfacciataggine. Questa opinione, da grande critico veramente, ha il suono della voce del fanciullo che vedendo il re senza vestiti, grida liberamente: “Ma il re è nudo!”. Jean Clair dice una verità che rasenta quasi la banalità: l’arte contemporanea non ha alcun valore, è alquanto brutta e in alcuni casi davvero disgustosa. Ergo, tutta l’arte contemporanea è fondamentalmente falsa e il suo valore è dato solo da un malsano gioco di mercato. Ben detto!

Ma io credo anche che l’arte ci parli da sempre di noi stessi e usi come materiale di espressione tutto quello che ha a disposizione: colori, parole, suoni, sostanze rigide o modellabili. Nulla impedisce all’arte di usare, per esprimersi, un fenomeno immateriale come lo stesso mercato, come il giudizio critico, come il denaro di chi ce l’ha, manipolandolo, gonfiandolo, portando spudoratamente noi stessi ad attribuire valore a ciò che valore non ha. Se oggi valutiamo in termini estetici, artistici, anche i videogiochi o persino i giochi di ruolo, non vedo perché non si possa pensare che l’arte stessa si sia appropriata del mercato, della critica e ne abbia fatto un mezzo di espressione.
Che cosa è dunque falso, l’arte stessa o il mondo che essa ritrae? Se il mucchio di pasticche multicolori di Damien Hirst viene venduto a centinaia di migliaia di euro, come opera d’arte estrema, è falsa quest’opera d’arte futile o è falso il mercato che la valuta in modo così  esorbitante? Quel prezzo astronomico, a mio parere e a buon gioco degli artisti, è parte espressiva dell’opera.

Gli ultimi anni hanno messo in evidenza il distacco incolmabile che si è fissato tra il denaro e la realtà che dovrebbe sorreggerlo. Dalla misera pensione sociale, alla parcella esorbitante dell’idraulico pagato in nero, sino agli hedge fund  – questi sconosciuti – abbiamo capito che non esiste più alcuna relazione tra la realtà, la verità, e ciò che siamo costretti a pagare o a ricevere. Non esiste più alcuna attinenza tra il prezzo di una zucchina così come viene pagata all’agricoltore e il costo che invece ci tocca pagare al supermercato… la colpa è della filiera.

E allora l’arte non può tacere, non può fare finta di niente.
Prima o poi mi aspetto di recarmi in un museo e trovare esposta in bella mostra una zucchina del valore di decine di migliaia di dollari, ci avvicineremo e leggeremo stupefatti il titolo attribuito dall’artista del momento: Filiera.

Pensandoci bene, l’arte contemporanea ci aveva avvertiti da tempo di quanto si possa giocare sulla verità del valore.
Ma siamo stati e continuiamo ad essere sordi, ciechi e muti di fronte all’arte.