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Inglese ItalianoHo partecipato recentemente a un congresso internazionale sulla musica del medioevo e del rinascimento. Il convegno si teneva in Italia e la musica di cui si parlava era essenzialmente italiana, mentre i partecipanti erano in maggioranza stranieri.
L’inglese era, fatalmente e malgrado tutto, la lingua di scambio, nelle sue varianti internazionali e anche nella semplicità grammaticale e lessicale di una lingua franca molto tecnica.
Ma qual era il posto dell’italiano?
Avrebbe dovuto occupare un posto d’onore, considerando l’argomento. E invece era inevitabilmente relegato a qualche dotta citazione, alla stregua di una lingua morta, oggetto d’archeologia.
Tra gli stranieri, non si ritiene così necessario conoscere bene l’italiano per parlare di musica italiana su testo, per esempio, di Petrarca o di Boccaccio: spesso si sbagliano la pronuncia, gli accenti, si fraintendono sovente significati palesi e sensi nascosti. Allo stesso modo gran parte della letteratura musicologica pubblicata in italiano negli ultimi anni viene costantemente ignorata. Se si vuole che i risultati dei propri studi abbiano diffusione internazionale, bisogna scrivere in inglese, altrimenti nessuno li legge fuori dall’Italia.
Tra gli italiani, invece, un eccessivo stato di sudditanza culturale, peraltro giustificato dal desiderio e dalla necessità di partecipare a una comunità internazionale di studiosi, porta a evitare l’italiano e a prodursi in conferenze lette o improvvisate in un inglese poco plausibile. C’è chi, rifiutando un’indecorosa interpretazione, prima di iniziare si scusa addirittura con i colleghi per aver scelto di esporre i risultati della propria ricerca nell’amata lingua madre.
Ma c’è davvero da scusarsi di parlare italiano?
E poi, niente paura: nessuno nella platea internazionale capirà niente di quello che si sarà detto nella nostra italica favella!

Certamente si tratta di un’iperbole. Tuttavia è vero che è molto difficile sottrarsi a questa tendenza culturale – io stesso non riesco – e d’altra parte opporsi potrebbe voler dire isolarsi definitivamente.
In Italia gli studi umanistici subiscono da questo punto di vista anche la pressione delle discipline tecnico-scientifiche che, essendo predominanti e diffondendosi solo in inglese, iniziano nel nostro Paese a imporre solo questa lingua anche ai letterati.
Sappiamo della nascita di corsi universitari in atenei italiani tenuti solo in inglese da docenti italiani… Cosa potremmo pensare di un corso di letteratura italiana per studenti italiani, tenuto in Italia da un docente di madre lingua italiana, ma tutto in inglese? E un corso su Carlo Gesualdo da Venosa, Giuseppe Verdi, Giacomo Puccini (ma anche sulle opere di Mozart e Da Ponte)?
Un vero paradosso, se non un’assurdità o un’altra sindrome di Tafazzi.