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Martin LuteroChe Lutero sia passato da Montefiascone mentre si recava a Roma, è un fatto non provato, ma possibile. È dunque interessante la cronaca immaginaria di un soggiorno del riformatore agostiniano nella città falisca.
Si trova nella biografia scritta da Jean Marie Vincent Audin, libro volutamente orientato a provare l’errore della riforma, in favore dell’ortodossia cattolica. Sembra che l’autore di questo racconto non conosca personalmente Montefiascone, né gli sia chiara la posizione geografica della cittadina che non è certo sulla vetta dell’Appennino. Ciò, però, rinsalda la convinzione che Montefiascone abbia svolto nel passato il ruolo di luogo letterario, adatto agli esotismi del teatro d’opera – ricordiamo il don Magnifico, Barone di Montefiascone nella Cenerentola di Rossini e l’uso analogo in altri drammi – ma anche ai testi satirici e polemici.
Oltre all’evidente posizione antiluterana, per cui si rimprovera a Lutero di generalizzare troppo facilmente e superficialmente, vi sono altri temi interessanti: la desolazione e la miseria del territorio, la povertà morale dei religiosi del luogo, l’inveterata ostilità del popolo tedesco nei confronti degli Italiani, il riferimento ingeneroso e polemico alla pittura di Cranach.
Ci piacerebbe conoscere le fonti dirette – se ve ne sono – da cui Audin ha tratto questo racconto.
Online si può leggere la versione originale in francese del 1839 sul sito di Gallica. Qui sotto la versione italiana pubblicata nel 1842.

Jean Marie Vincent Audin, Storia della vita, delle opere e delle dottrine di Martino Lutero, vol. 1, Milano, 1842, pp. 14-16.

Giunto a Montefiascone, sulla vetta dell’Appennino, Lutero guardò dinanzi a sé, e vide estendersi in lontano una terra sterile e arida, delle nude e decrepite roccie, mentre aspettavasi di vedere ovunque i mirti e gli aranci. Quale contrasto colla Sassonia da lui poco prima lasciata, ove sono tanto belli i fiori, tanto folti i boschi, tanto fresca e brillante la verzura! Il suo occhio perdeva il prestigio. Erasi fermato in una piccola osteria ove de’ monaci seduti bevevano, gesticolavano, ciarlavano con una volubilità tutta italiana, e s’intrattenevano cavallerescamente, dice egli, di cose sante. Aveva creduto che l’ombra del Vaticano dovesse estendersi come un mantello sulla natura umana, ed era un miracolo ch’egli aspettava dal papato. Siccome non avveniva, così si alzò per timore di qualche cattivo partito di cui veniva minacciato il suo compagno di viaggio, che aveva troppo coraggiosamente difeso l’onore del cappuccio, di cui burlavansi altamente que’ monaci.L’umanità gli apparve come la natura, impoverita, cattiva, turbolenta, priva delle sue antiche e nobili tendenze, e fuori delle viste di Dio. Ovunque passava, vedeva dei Santi posti nelle nicchie, dinanzi ai quali fumava l’incenso; questi erano coronati di fiori, e pregati a mani giunte. “Miserabili, esclama dolorosamente, che temono più Sant’Antonio o S. Sebastiano che nostro Signore Gesù, e che, per preservare una casa, dipingono su di essa l’imagine di uno di que’ beati; gente priva di Dio, che non crede alla risurrezione del corpo, alla eternità, e teme soltanto i mali della terra!” Come se questa divozione ai Santi non desse prova di una credenza in un’altra vita! Se nel pensiero di un Italiano non vi è eternità, perché quel culto per esseri che altro non sono che polvere? Evidentemente nelle vene di Lutero vi è troppo vecchio sangue tedesco che lo fa obedire, senza avvedersene, all’odio innato nel cuore germanico per tutto ciò che viene da oltre l’Alpi. Il prete somiglia al pittore Luca Cranach, che ne’ suoi quadri dipinge una bella barba, due occhi neri, una fronte elevata alle teste tedesche, e dipinge le teste italiane con un mento imberbe, collo sguardo severo, e con lineamenti effeminati. Lutero ha osservata la poca premura dei mariti oltremontani verso le loro mogli, e ne conchiude che il matrimonio non è in onore fra loro, onde li chiama figli del peccato.