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Il passato, quello che abbiamo vissuto e quello che invece cerchiamo di recuperare raccogliendo frammenti lontani, è intrinsecamente surreale. Forse è questo l’unico piano fecondo che oggi ancora ci riserva la storia, per altri versi apparentemente del tutto inutile e incapace di guidarci nel presente e nell’immediato futuro.

Sedia da bar degli anni Settanta

Una fotottica, un negozio con le pareti coperte in plastica giallina, qualche sedia da bar, quelle di ferro cromato macchiato di ruggine, rivestite col tubolare morbido e sottile, colorato e avvolto a spirale, sbiadito anch’esso.
Nel retrobottega, accanto alle foto in bianco e nero appese ad asciugare, una chitarra in attesa e un vecchio tavolo dipinto di smalto arancione, col piano coperto da un largo foglio bianco fissato coi punti.
Si poteva disegnare lì sopra e scrivere quel che volevi e poi, una volta consumato, c’era sempre sotto un altro foglio, bianco anch’esso, ad accogliere le nuove parole, immagini nuove, risate e nuvole. Su quel tavolo, si giocava a scacchi, si parlava di cinema, di teatro e di libri. Si cercava e si aspettava Godot.
Io ero bambino e sentivo cose che non capivo.
Fu lì che ascoltai per la prima volta De André, Gaber e Jannacci, chiamati per cognome e cantati stonati dai giovani di belle speranze che entravano e poi se ne andavano via. Tornavano a volte, e a volte no.
È stato lì che ho provato l’arpeggio della Canzone dell’amore perduto, ma non sapevo di cantare un concerto di Telemann. E i polpastrelli di prima pelle facevano male sulle corde ossidate della chitarra, diventando lividi e verdi.
Lì dentro ho scoperto la verità de La bugia. Viva la bugia: che bel vizio.
In quel retrobottega ho conosciuto i versi di Cassiano Ricardo, provando a cantare il piripiripipi di Giovanni telegrafista, col cuore urgente, ellittico, senza mai prendere fiato, e ho cercato di tenere il tango da balera del Taxi nero.
Era in discesa, eppure pareva in salita…

Enzo Jannacci, Aveva un taxi nero