Di qualche giorno fa è la notizia della scomparsa di Dave Brubeck, profeta del Cinque quarti.
Recentemente lo avevo rivisto in tv, intervistato da Clint Eastwood in un documentario dedicato al blues.
Il suo brano più famoso è certamente quel Take five che ha rappresentato per anni e ancora oggi è la sigla di un certo tipo di jazz, molto colto e sofisticato, quasi filosofico. Il brano è caratteristico per la sua scansione del tempo: un inconfondibile e affascinante Cinque quarti.
Il Cinque quarti è una metafora, un’immagine: lo specchio della realtà.
La nostra percezione volontaria e fenomenica è sempre in quattro quarti, un intero cadenzato e binario, che ci fa procedere regolari nell’incedere del tempo.
Il Cinque quarti, invece, è la cosa in sé, il noumeno come ci appare spontaneamente in pochi momenti di stato di grazia, quando capiamo che c’è sempre qualcosa di più, un quinto quarto niente affatto palese, il quale rende tutto dispari e sorprendente, eppure dinamico e irrefrenabile.
Take five ci fa capire di più, di più di quel sovrasensibile fuori dal tempo che è però vero.
Come è stato scritto, Dave Brubeck non muore mai, ha solo cambiato tempo.
Sentite? Ora è passato in Cinque quarti.
Caro Acciarino,
una piccola, ininfluente per la metafisica, precisazione: l’autore di Take Five è Paul Desmond, sassofonista del Dave Brubeck Quartet, con cui incise il brano.
Tra l’altro perdendo una somma pazzesca di diritti d’autore – visto il successo del brano e le vendite dell’album “Time out” – donati …alla Croce Rossa.
E a Proposito di “opere d’arte basate su altre opere” sentiti questa: