Quanto è monotona una Canzone mononota?
Per niente, se è gremita di arzigogoli rarissimi. Una canzone divertente, ironica, complessa e difficile da suonare e cantare, tutt’altro che minimalista, insomma una canzone colta.
Subito abbiamo pensato alla Funzione metalinguistica di Roman Jakobson: una canzone che parla di se stessa in modo così tecnico e fornisce per ogni definizione l’immediato riscontro sonoro. Una canzone volutamente didattica che smaschera senza scampo la nostra ignoranza musicale collettiva: maggiore, minore, diminuita, eccedente, ritmo, accordi, ottava…
Spiegare esattamente di cosa si tratti richiede almeno un semestre di lezioni teoriche e pratiche che dovrebbero essere comuni in ogni scuola superiore, specialmente in Italia. Si potrebbe cominciare, magari a partire da una sola nota!
Inutile sottolineare che cantare al Festival di Sanremo una canzone di una sola nota ha un sapore canzonatorio per nulla velato e dissimulato.
Facile da canticchiare, in apparenza banale, martellante al punto giusto da rimanerti in testa tutto il giorno e anche il giorno dopo. Il suono del cucchiaino che batte sulla tazzina quando mescoli lo zucchero nel caffè, sempre uno stesso suono, sempre una sola nota, mentre ti prendi una pausetta.
E gli antesignani – dubito che vi sia altra canzone italiana che contenga nel testo la parola antesignani – per affermare la tradizione e il valore della Storia della musica.
Rossini in primo luogo. Oltre a Adieu à la vie, élégie sur une seule note, richiamata dagli stessi interpreti, e la variante Mi lagnerò tacendo, occorre ricordare la celebre aria Chi disprezza gl’infelici dal Ciro in Babilonia, composta per il mezzosoprano Anna Savinelli che, nelle parole di Rossini: «Non soltanto era brutta oltre il lecito, ma anche la voce era al di sotto di ogni decenza. Dopo l’esame più scrupoloso scoprii che aveva soltanto un’unica nota che non suonasse tremendamente, il Si bemolle dell’ottava centrale. Dunque scrissi per lei un’aria nella quale non dovesse cantare nient’altro che questa nota, misi tutto il discorso musicale in orchestra, e poiché il pezzo piacque e fu applaudito, la mia monotona cantante fu felicissima del suo trionfo».
È la rivincita del cantante mediocre sul virtuoso: Stai attento! Che qui basta che fai: “Aaah” e sei fuori.
Ma La canzone mononota è anche una filastrocca. E allora come dimenticare La favola della gatta miagola, di Fiorenzo Fiorentini e Carmelo Pagano, Zecchino d’Oro, 1964.
La canzone mononota è pure un po’ minimalista: mi viene in mente In C, di Terry Riley ancora del 1964.
C’è da dire che gran parte dell’odierna musica techno-dance si è uniformata al minimalismo e usa una nota o poco più, vedi Gangnam Style o Snoop Dogg. Dunque La canzone mononota è anche molto up-to-date.
Caro Acciarino,
dice un proverbio che “l’occasione fa l’uomo ladro”, ma in questo caso mi sembra che sia piú appropriato dire che “l’occasione era ghiotta”: quale luogo migliore del Festival della canzione italiana per proporre una simile idea, che abbatte tutti i luoghi comuni e gli stereotipi relativi alla musica italiana, da sempre caratterizzata dalla cantabilità, dal lirismo, dall’ariosità, e contrapposta – fin dagli esordi della polifonia – ad una costruzione dei musicisti “nordici” basata invece sul contrappunto, poi sull’armonia e sulla strumentazione?
Arrivare a Sanremo eliminando l’elemento costitutivo tipico della “canzonetta leggera da festival” e fondare le proprie speranze di ascesa in classifica sull’arrangiamento, sulla variazione armonica, timbrica e sulla parodia stilistica (davvero apprezzabili le poche misure cubane del pezzo), significa ricapitolare e insieme picconare l’intera storia della manifestazione, da Nilla Pizzi a Claudio Villa, da Massimo Ranieri ad Antonella Ruggiero, mentre Maria …Nazionale (sic!) canta il tipico pezzo italo-napoletano conforme agli orizzonti di attesa del pubblico, e nella serata ‘libera’ del venerdí ripropone “Perdere l’amore” di Massimo Ranieri.
Occorre però sottolineare che anche la musicologia si è adagiada su questa dialettica tra lirismo italiano e solidità della costruzione dei compositori d’oltralpe, sin dalle sue origini.
Cosí Abramo Basevi, primo biografo di Verdi, musicologo e collezionista di libri e manoscritti di musica, in un articolo apparso sul periodico “Boccherini” del 1863, a proposito del “Faust” di Gounod:
“Noi ci compiacciamo di veder apprezzato un lavoro come il ‘Faust’, che spicca principalmente per la parte strumentale; ma non possiamo menarla buona a certi nuovi convertiti, i quali sarebbero pronti a “far getto della melodia italiana”. […] In Italia non è spento il genio della melodia; ma vuol essere coltivato e temperato con nuovi trovati dell’armonia e della strumentazione. Che i giovani maestri ascoltino il nostro consiglio: studino di proposito i buoni e i classici autori, si addentrino nella strumentazione, perfezionino il loro gusto nell’armonia, e renderanno cosí all’Italia il primato musicale che le spetta. Sia di loro conforto il pensiero che si può insegnare a scrivere un’opera come il “Faust”; ma che non s’insegnerà mai a scrivere un “Matrimonio segreto”, un “Barbiere”, una “Norma”, una “Lucia”, e tanti altri spartiti ove risplende la pura melodia italiana!”
Ed infatti, c’è chi per didattica di questo gioiello si avvale. Si dice alle superiori? Approfittiamone già alle medie, introducendo elementi di teoria, di critica, di analisi, e, perché no, in un disastrato paese come il nostro, anche di storiografia. Da provare, chiedere a una terza media di andare da sé a cercare quale sia il legame con Rossini, e da lì partire per una riflessioni sulle fonti storiografiche (queste perenni sconosciute…). Insomma, grazie a Elio, per il preziosissimo assist educativo (ho avuto il modo di dirgli di persona che utilizzo regolarmente la Mononota per fare didattica: con la sua modestia, ne sembrò sorpreso…). E grazie a voi, per avere confermato la bontà della mia proposta.