Rilancio alcune scintille tratte dal Domenicale del Sole24ore di Domenica 18 novembre 2012. A fronte della cronaca dei recenti Stati Generali della Cultura, si trovano segnali che colpiscono, assieme a un senso generale che le cose, quanto alla cultura, non vanno proprio bene.
Armando Massarenti in un commento al discorso del Presidente Napolitano durante la stessa manifestazione, scrive:
Giovedì mattina, agli Stati Generali della Cultura, al teatro Eliseo di Roma, più ancora delle scomposte voci di protesta emerse dalla sala, rivolte ai ministri presenti sul palco, un orecchio allenato avrebbe dovuto essere colpito da una micidiale stonatura, un errore di pronuncia della giovane voce attoriale che recitava il testo del bel cortometraggio di Vincenzo Cerami: invece di rètore è risuonato nella cavea dell’Eliseo, con l’accento spostato in avanti, un orrendo, squalificante, retòre. Per fortuna il Presidente Napolitano, prendendo la parola a fine mattinata, ha corretto anche questo, sedando, con la sua autorevolezza, i furori del pubblico.
Concordo con l’estensore dell’articolo, c’è da essere furibondi, ma mi abbandono soltanto a due deluse constatazioni:
- Se neanche un professionista della parola, un attore seppur giovane, riesce a leggere correttamente l’italiano, che cosa bisogna pensare? Non appena spunta un vocabolo inusitato… bum, anche i professionisti cadono in errore. Ad infastidire non è solo l’ignoranza diffusa dell’italiano, ma anche il fatto che non si prenda mai in mano un dizionario: è evidente che non si ritiene necessario per svolgere il proprio lavoro e comincio a dubitare che si sappia almeno leggerlo.
- Seconda riflessione: perché non si svolge più il lavoro a regola d’arte? Non siamo più in grado di condurlo accuratamente o ciò non si ritiene affatto necessario?
Durante gli Stati Generali della Cultura un errore come retòre non doveva giungere fino al pubblico, perché una schiera di correttori avrebbe dovuto emendare la dizione scorretta prima della prima. Ciò non è successo poiché, come nell’edilizia, nell’idraulica, nella sanità e in molti altri campi, non si sente più il gusto di svolgere il proprio lavoro a regola d’arte. La conferma a questa mia sensazione è venuta leggendo un passo del discorso del Presidente Napolitano, quando, riferendosi ai Padri della Costituzione, nella stessa occasione ha affermato:
… voglio rendere omaggio a quei signori che sapevano scrivere in due righe una norma: sapevano scrivere in italiano le leggi, e innanzitutto la Legge fondamentale.
Sembra, dunque, che non si sappia più scrivere una legge in italiano.
Traggo un’ultima scintilla dall’articolo di Carlo Bernardini intitolato Il reattore di Fermi.
Edoardo Amaldi, che di Fermi era fedele discepolo e amico, diceva che, chiedendo al Maestro come aveva fatto a capire ciò che si poteva ottenere e come, Fermi rispondeva sorridendo: Cif!, che stava per Con intuito fenomenale. […] Meglio faremmo, oggi, a riflettere sulla nostra degenerazione culturale e su quanto poco Cif è rimasto negli individui di tutte le età: il Paese ha sprecato ricordi e risorse come se fosse rimasto in mano a una civiltà trogloditica, nonostante l’esempio di capacità diffuse come quelle mostrate nella ricostruzione postbellica, poi sopraffatta da ideologie, speculazioni e irrigidimenti burocratici. Da lì, dobbiamo ripartire.
Riparto dunque senza indugio alla ricerca del Cif !
…e intanto i nostri ministri dell’istruzione (non solo Profumo, ma almeno da Berlinguer in poi), pensano di “ridurre a quattro anni del percorso delle scuole superiori” (http://www.orizzontescuola.it/news/riduzione-quattro-anni-percorso-superiori-ipotesi-concreta)
Caro Acciarino, consiglio vivamente la lettura del breve racconto “Per l’errore”, tratto dal libro di Daniele Del Giudice “Staccando l’ombra da terra” (Torino, Einaudi, 1994). Nelle sue poche pagine, in cui si racconta l’apprendistato di pilota areonautico del protagonista alle prese con gli insegnamenti del suo maestro, viene rovesciata la prospettiva negativa dell’errrore, nel momento in cui il suo accoglimento si tramuta al contrario nella possibilità di correggersi, autoemendarsi, migliorarsi, e salire in alto, finalmente in volo da “solisti”.
Caro Acciarino, due brevi considerazioni:
1) “A regola d’arte” si diceva – e si dice ancora – seguendo una tradizione in cui le “Arti e Mestieri” erano delle corporazioni che regolavano l’accesso alle professioni, disciplinando l’apprendistato fino al raggiungimento di un livello che non squalificasse la categoria e il gruppo già costituito degli operatori nei vari “distretti” professionali. Ma oggi chi disciplina cosa, soprattutto nel settore umanistico e delle arti? E su quale principio di autorità potrebbe essere autorizzato a farlo?
Mando un link ad una bella immagine con le corporazioni medievali di Orvieto: http://www.lamescaligere.it/foto/Ricerca/Arti%20e%20mestieri/mestieri.JPG
Si distinguono gli utensili dei sarti, dei fabbri, degli orafi, dei cardatori di lana, dei vasai, dei cordari, etc….
2) A regola d’arte implica che il prodotto del proprio lavoro – nel mirare alla perfezione – abbia una durata potenzialmente infinita, e non vada a deteriorarsi anzitempo. Ma oggi abbiamo sostituito la cura e la manutenzione – la “lunga durata” direbbero gli storici – con il consumo continuo e la sostituzione affrettata, perché riparare/restaurare costa più che ricreare/ricomprare (dagli oggetti alle case, fino al corpo stesso, con le sue infinite protesi). Dunque la regola d’arte è in realtà un freno al consumo, alla crescita, allo sviluppo, al PIL…