Questa domanda richiama una risposta quasi scontata: no, gli studenti non studiano.
Affermare questa banalità è un po’ come scoprire che il re è nudo: tutti sanno che gli studenti non studiano, ma non lo si ammette facilmente. Tuttavia, in un momento come questo in cui la crisi generale della nostra Nazione colpisce in modo particolare la cultura, in cui la Scuola e l’Università non vedono un organico piano di rilancio da parte del Governo, ma solo tagli indiscriminati, in cui gli studenti e gli insegnanti insieme scendono in piazza per l’ennesima volta – quante volte abbiamo protestato? – per far capire che il futuro sta nell’innalzamento della cultura e invece vengono presi a manganellate per colpa di pochi facinorosi, in questo momento, vorrei dire che, ahimè, gli studenti non studiano.

Certamente non si può generalizzare, ma dai colloqui avuti recentemente con alcuni colleghi, ritengo che la tendenza sia purtroppo molto chiara. Infatti, è esperienza comune per me che insegno in Università il fatto che gli studenti non facciano mai i compiti, non studino cioè volta per volta, in modo da acquisire lentamente le nozioni fondamentali ed essere pronti ad assorbirne altre più approfondite in un lavoro progressivo di apprendimento. Gli studenti assistono alle lezioni ricordando quasi niente di ciò che è stato spiegato le volte precedenti, ma rimandando ai pochi giorni dedicati alla preparazione dell’esame l’indigestione complessiva di tutti i contenuti, i quali non vengono assorbiti e interiorizzati, ma rimangono sulla superficie e presto vengono dimenticati.

C’è dunque da chiedersi: perché gli studenti non studiano? Faccio delle ipotesi, sottolineando però che mi riferisco a un ciclo di istruzione superiore, quando cioè la scelta di proseguire gli studi dovrebbe essere stata presa consapevolmente e liberamente, dove il non studiare appare francamente incomprensibile.
Inoltre, le mie considerazioni sono da applicare al contesto di un insegnamento di tipo umanistico, l’unico che conosco bene.

  1. Primo fra tutti i motivi che potrei addurre, proporrei: il professore non è bravo, non insegna niente, quindi non c’è niente da studiare, oppure, peggio, non porta a impegnarmi nello studio.
    Se anche fosse vero che il professore non insegni niente – non a caso, essendo coinvolto personalmente, ho posto questa come prima motivazione possibile – mi aspetto che lo studente reagisca, cerchi di rimediare all’inconveniente, poiché è in gioco la propria vita, pretendendo dal docente di impegnarsi di più o magari in casi estremi cercando un altro docente. Invece, purtroppo sempre meno ricevo dagli studenti stimoli a studiare di più, domande difficili alle quali non so rispondere, problemi di contenuti o didattici su cui discutere e anche dissentire. Niente: solo stupore e quasi terrore di cimentarsi e confrontarsi con qualcosa di più difficile.
    Quanto alla necessità di stimolare gli studenti allo studio, non mi sembra il luogo, l’Università, per trovare qualche modo bizzarro per far studiare gli studenti: se vuoi imparare, all’Università puoi farlo, ma devi trovare in te stesso le motivazioni per studiare.
  2. Secondo motivo: a che serve studiare volta per volta? Basta andare alle lezioni, scrivere qualche appunto e poi, qualche giorno prima dell’esame, studierò.
    Che dire? Si tratta ovviamente di un problema di metodo: gli studenti non sanno studiare, non conoscono le minime tecniche di apprendimento, oppure non hanno nessuna voglia di applicarle.
    Può essere l’Università a insegnare loro come si studia? Direi proprio di no. Ma certamente tutto il ciclo dell’Istruzione italiana è afflitta dalla sindrome del rinvio: alle elementari non si interviene su certe basi perché poi ci penseranno i professori delle medie, alle medie si pensa ai contenuti e quanto al metodo di studio si vedrà alle superiori, al biennio delle superiori si rinvia al triennio successivo, quando arriveranno i contenuti più specialistici, e una volta al triennio si rimanda direttamente all’Università. I giovani giungono all’Università senza avere se non una minima consapevolezza di cosa voglia dire studiare.
  3. Terzo motivo: ciò che si insegna è troppo difficile, non si capisce niente, imparerò il più possibile, a memoria, prima dell’esame.
    Questa è una difficoltà che cresce sempre di più: gli studenti non capiscono quello che si spiega loro, non capiscono ciò che è scritto sui testi che devono studiare, sostanzialmente poiché non posseggono le basi culturali che noi docenti ancora diamo per scontate. Se però non le dessimo più per scontate, dovremmo inevitabilmente abbassare di molto il livello di approfondimento delle nostre lezioni: è quello che purtroppo sta succedendo progressivamente. La sensazione è palpabile e porta a un appiattimento generale molto scoraggiante.
    Per esempio, con quali studenti potrei condividere la ricerca specialistica che sto svolgendo in questo momento? Prima di consentire loro di capire qualcosa del canto liturgico monodico, delle sue fonti manoscritte, della notazione neumatica ecc. ecc. bisognerebbe che avessero a disposizione gli strumenti basilari (latino, storia del medioevo, una minima informazione sulla liturgia) che purtroppo non fanno parte del loro bagaglio culturale.

Molte altre ragioni si potrebbero addurre per spiegare questo fenomeno che mi pare piuttosto preoccupante. D’altra parte lo studente curioso, che ti viene a cercare, che ti tormenta con le sue domande, che ti coinvolge nelle proprie ricerche e nelle proprie riflessioni, sembra una vera rarità. Magari, prima o poi, qualcuno capiterà da queste parti.

È il discepolo che fa, di una persona qualsiasi, un maestro.